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Doctor Strange nel Multiverso della Follia: la recensione

Distrutta dal dolore e corrotta completamente dal libro magico denominato Darkhold, Wanda Maximoff (Elizabeth Olsen) ormai divenuta la temibile Scarlet Witch, da la caccia ad una giovane ragazza che è in grado di aprire dei portali per il multiverso. Nel mentre il dottor Stephen Strange (Benedict Cumberbatch) fa i conti con il passato che ritorna e con strani ed inquietanti incubi che lo tormentano, quando la ragazza in questione, America Chavez (Xochitl Gomez), irrompe nella vita dell’ex Stregone Supremo…

 

Nessuno si sarebbe mai aspettato il ritorno in grande stile di quel genio di Sam Raimi, lontano dalle scene da quasi dieci anni dopo il flop del sottovalutatissimo Il grande e potente Oz (2013), tantomeno un ritorno alla guida di un cinecomic.


“Cosa non si fa pur di lavorare”, direbbero i maligni.


Raimi, fin dai tempi del primo Spider-Man, non ha mai nascosto il suo amore viscerale per le storie di Stan Lee e Steve Ditko quindi chi meglio di lui per dirigere un film ambizioso come Il Multiverso della Follia, dopo l’abbandono di Scott Derrickson, regista del primo film.


La via per il multiverso cinematografico che i Marvel Studios hanno intrapreso negli ultimi due anni è chiara e netta, la cosiddetta Fase 4 del Marvel Cinematic Universe sembra delineata verso l’esplorazione di mondi paralleli, dimensioni alternative e varianti dei personaggi più amati.


Ad un primo e fugace sguardo sembrerebbe una scelta abbastanza scontata quando si finiscono le idee, ed effettivamente, dopo quella baracconata divertente che è stata Spider-Man: No Way Home, in cui la fiera del fanservice la fa da padrone, si potrebbe dire che Kevin Feige e soci abbiano finito le frecce al loro arco.

Doctor Strange nel Multiverso della Follia ribalta questo pronostico, Raimi ci regala un’opera visivamente complessa, accattivante nella messinscena, stilisticamente inespugnabile.


Il regista di Evil Dead (adattato in italiano ne La Casa) si diverte come un bambino al luna park, fa quello che vuole a livello visivo, regalandoci una sequela di auto-citazioni di tutte le sue vecchie opere, a partire dal già citato Evil Dead passando per L’armata delle Tenebre (terzo capitolo del franchise) fino al recente Drag Me To Hell (2009).


Demoni, cadaveri, streghe, libri maligni (il Darkhold come versione fumettistica del Necronomicon Ex-Mortis) e jumpscare: si direbbe che Raimi ha fatto i compiti a casa regalandoci in assoluto il film più “violento” dell’intero MCU, una vera e propria gioia per gli occhi, a livello di forma stiamo parlando di un film inattaccabile e sicuramente autoriale.


Peccato però che la sostanza non sia così ineccepibile come la forma.


Se la messa in scena risulta pressoché perfetta, la scrittura ad opera di Michael Waldron (showrunner della serie tv dedicata a Loki, disponibile su Disney+) risulta convenzionale e non particolarmente ispirata.


Nonostante il leitmotiv della narrazione sia la perdita e l’elaborazione di essa, rimangono alcuni punti deboli di sceneggiatura francamente inaccettabili per un’opera cinematografica.


L’arco narrativo di Wanda, interpretata da un Elizabeth Olsen mai così in forma nel Marvel Cinematic Universe, ad esempio non è particolarmente lampante. La visione obbligatoria di WandaVision per capire le motivazioni della Maximoff in questo film, ad esempio, è chiaramente un punto debole di un pellicola che dovrebbe reggersi sulle proprie gambe, narrativamente parlando.


Diverso, invece, il dramma del Dottor Strange, sicuramente più coerente con il percorso del Dottore iniziato nel film del 2016, qui portato in scena da un Benedict Cumberbatch in grande spolvero, sempre più a suo agio nei panni dello Stregone Supremo grazie anche ad una chimica ben oliata con Benedict Wong nei panni del fidato Wong.