Prey: la recensione
- Matteo Pelli
- 27 ago 2022
- Tempo di lettura: 3 min
Stati Uniti, anno 1719.
Naru (Amber Midthunder), è una giovane donna Comanche che sogna di diventare una cacciatrice, tuttavia le convenzioni sociali dell’epoca non permettono alla ragazza di inseguire il suo obiettivo.
Tutto cambierà quando, improvvisamente, un cacciatore Yautja in cerca di trofei irromperà nella vita di Naru stravolgendola completamente.
Il concetto alla base del film è stato proposto dal regista Dan Trachtenberg (10 Cloverfield Lane) al produttore John Davis durante lo sviluppo di The Predator di Shane Black nel 2018.
Il progetto preliminare, intitolato inizialmente Skulls, narrava di una donna Comanche che andava contro le tradizioni e le usanze dell’epoca per diventare una guerriera.
Stilema narrativo che si è mantenuto quando, nel 2020, Skulls (rinominato successivamente in Prey) divenne a tutti gli effetti il quinto film di uno dei franchise fanta-horror più famosi di sempre (la nostra retrospettiva su Predator QUI).

Uscito direttamente in streaming il 5 agosto scorso (negli States su Hulu, da noi su Disney+), Prey riporta la saga al concetto originale del film di John McTiernan con l’inossidabile Schwarzenegger, dando però un punto di vista completamente diverso spostando l’azione in un contesto simile ma concettualmente nuovo.
Trachtenberg, in un’ora e quaranta di pellicola, riesce a portare in scena un prequel (che sa tanto di tributo al personaggio creato dai fratelli Thomas nel 1987), che nulla ha da invidiare al capostipite della saga.
L’ambiente in cui Naru, suo fratello Taabe (Dakota Beavers) e il resto della tribù Comanche è ostile, sporco, pieno di insidie faunistiche (orsi, lupi e puma come se piovessero): la location perfetta per lo svolgimento di una caccia senza esclusione di colpi, dove i ruoli chiave nello scacchiere vengono invertiti continuamente.

In questo senso, per larghi tratti, la presenza di un Predator all’interno del film sembra quasi un McGuffin.
Il pretesto narrativo su cui il film si basa è la crescita e l’emancipazione di Naru come membro di una società che l’ha sempre snobbata, lo Yautja è il motore che muove questi avvenimenti verso il loro compimento.
Non è un caso che il film ingrani la marcia dopo ben 50 minuti: nonostante nel primo e nel secondo atto si capiscano bene le motivazioni della nostra protagonista, è nel terzo atto che l’azione esplode in un vero e proprio bagno di sangue, col Predator che fa mattanza di qualsiasi cosa che si muova, umano o animale che sia. E per essere un prodotto distribuito da Disney non è una cosa da sottovalutare.
Da questo punto di vista il regista ha fatto i compiti a casa e si vede.
Si percepisce la fedeltà al capostipite, la voglia di omaggiare un caposaldo dell’action anni 80 svecchiando il brand in un contesto rurale, sporco e disagiato, portando in scena una delle versioni dello Yautja più brutali e convincenti di sempre. L'alieno del film, predecessore meno tecnologico ma di certo non meno brutale e cattivo, è esteticamente perfetto: meno corazzato, armi prevalentemente bianche, corporatura più snella e più agilità nei movimenti. Insomma, una bella dimostrazione scenica che anche gli Yautja hanno etnie e razze diverse tra loro (come abbiamo già visto in Predators di Nimrod Antal).
Inoltre, per aggiungere carne al fuoco, i maligni diranno che questo film si potrebbe riassumere con un lapidario Pocahontas vs Predator.
Nulla di più sbagliato: l’arco narrativo di Naru (sottovalutata da tutti, Predator compreso) ha un significato ben preciso all’interno dell’economia del film: per cacciare non serve solo la forza bruta, serve anche astuzia e intelligenza.

Ragion per cui, Prey a conti fatti, rimane uno dei migliori capitoli di questa saga. Un’ora e quaranta di puro intrattenimento, un film asciutto ed essenziale, forse con una CGI da rivedere in alcuni momenti (specie per quanto riguarda gli animali), ma con una forma e una sostanza di assoluto valore. Un vero peccato che non sia stato rilasciato in sala, con un budget più elevato e una mezz’ora in più di screentime avremmo sicuramente gridato al miracolo. VOTO: 7,5
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